La guerra tra le mura di casa
La maggior parte del mio lavoro di artista indaga i rapporti interpersonali che hanno come scenario la casa: un universo protetto, ma anche un campo minato. Esploro la casa come nido, ultimo rifugio o bunker ovattato.
Quando avevo dieci anni abitavo a Buenos Aires con mia madre, il suo compagno e mia sorella Bibi. La nostra vita era molto cambiata dopo la separazione dei miei: da quel momento, io e mia sorella non avevamo più avuto pace, e nemmeno una nostra stanza: dormivamo infatti nel salotto.
Un giorno ero sul mio divano-letto, quando ho sentito litigare gli adulti nella loro stanza. A un certo punto mia madre si lamentava molto forte. Ho aperto la porta e ho visto Omar, il suo compagno, che cercava di strangolarla con il cavo del telefono. Capitava spesso, mentre io e Bibi giocavamo o facevamo i compiti, che li sentissimo litigare, in un crescendo che non presagiva mai niente di buono. Normalmente i litigi iniziavano con sguardi, frasi buttate qui e là, fino a degenerare in liti furiose. Alla fine lui la picchiava e lei scappava sul corridoio dell’appartamento, si metteva a piangere sulle scale o seduta per terra. Un giorno lui la spinse contro una porta a vetri. Lei si fece un taglio sul braccio: uscì tantissimo sangue. Più che farmi soffrire, tutto ciò mi impauriva, mi paralizzava, non sapevo cosa fare.
L’attesa impossibile
Ricordo anche mia madre con un coltello in mano, disfatta, con lo sguardo sperduto seduta per terra. Adesso che queste immagini mi tornano in mente vorrei accarezzarla, asciugarle le lacrime, come farei con qualsiasi donna nelle sue condizioni. Ma allora ero una bambina impaurita e riuscivo solo a sedermi accanto a lei.
Mia mamma piangeva e diceva che lasciare mio papà era stato uno sbaglio. Io e mia sorella cercavamo di esserle solidali, ma sapevamo anche che, passato quel momento, la ‘coppia’ sarebbe tornata alla ‘normalità’. Sapevamo che mia mamma avrebbe ignorato i vicini che nei momenti tragici ci avevano aiutato e che erano preoccupati per noi. Dai dieci ai sedici anni (età in cui sono uscita di casa per sposarmi) ho vissuto questa tragedia che si consumavaimplacabile di fronte a me.
Sgranavo gli occhi su una realtà che mi ha segnata profondamente.
Solo molti anni dopo sono riuscita a percepire mia mamma come vittima. Ai miei occhi da bimba lei impersonava il carnefice, pensavo che fosse colpa sua se eravamo in quella situazione violenta. Con l’ingenuità dei miei dieci anni, credevo che, se lei non avesse reagito, Omar avrebbe evitato di picchiarla. Mi sembrava che lo provocasse, perché non stava zitta. E la odiavo per questo.
Non riuscivo a capire che non c’era – e non c’è mai – nessuna attenuantealla violenza fisica contro le donne.
Galoppando verso la libertà
Mia madre veniva da una famiglia che abitava in campagna e può darsi che fosse proprio quella natura ostile a produrre persone e rapporti primitivi. Scavando nel passato familiare ho scoperto che quella era la normalità: erano tante le storie di violenza contro le donne.
Un mio prozio scoprì una notte che sua moglie, stufa di essere picchiata, cercava di scappare a cavallo con i suoi figli piccoli. Allora le puntò una pistola alla tempia e le ordinò di andarsene via e di non tornare mai più. Mia zia, oggi anziana, ricorda ancora quel momento: non rivide mai più sua madre. Oggi mi è difficile immaginare dove potesse scappare una donna in mezzo all’immensità delle pianure argentine e mi chiedo se la vita da quelle parti scorra ancora in quel modo.
Le statistiche ci dicono che l’anno scorso in Argentina sono state uccise 286 donne e ragazze per violenza di genere. Un omicidio ogni trenta ore. Questa realtà non appartiene però solo all’Argentina, ma è un fenomeno mondiale. In Italia, dove sono venuta a vivere negli anni Ottanta, le donne hanno certamente più diritti, frutto delle loro lotte e degli anni del femminismo. Eppure anche qui, una donna viene uccisa ogni tre giorni da qualcuno che appartiene al suo presente o al suo passato.
Non c’entra nulla l’età, la condizione economica, il livello scolastico, se siano del Nord o del Sud del mondo: in ogni parte del pianeta le donne vengono uccise non da estranei, ma da persone con le quali hanno condiviso un progetto di vita.
Sono numeri spaventosi: ci parlano di una società malata che produce uomini incapaci di confrontarsi con le donne senza l’uso della forza fisica.
La violenza domestica talvolta scatta apparentemente per un nonnulla, le tensioni esplodono anche se ci si sforza di tenerle eroicamente sotto controllo. Sono situazioni che conosco bene e che riproduco nei miei lavori. Gli oggetti di uso quotidiano – forbici, coltelli, mannaie, pentole – possono diventare corpi di reato in pochi minuti. I coltelli trasparenti che fluttuano sopra di noi sono una minaccia quasi invisibile, come le bombe a mano rosa confetto che ci descrivono la casa come un campo di battaglia.
Difficilmente l’arte può cambiare la società, ma può contribuire a trasformare lo sguardo di chi osserva e a far vacillare le sue certezze, svelando i meccanismi malati di ciò che chiamiamo ‘normalità’.
Come artista non intendo guardare dall’altra parte.
Le opere di Silvia Levenson sono fotografate da Marco Del Comune. L’opera di copertina è intitolata ‘Finché morte non ci separi’.